Torneremo ad abbracciarci e stringerci forte
Avrei voluto scrivere queste righe da Lusaka, ma per delle circostanze che voi ben sapete e che stiamo ancora vivendo, il Coronavirus mi ha obbligata a rientrare velocemente in Ticino, anche se nemmeno qui ci si può sentire al sicuro e al riparo da tutto.
Dovrei iniziare a parlarvi del progetto avviato in Zambia, a Lusaka. Dovrei parlarvi e scrivere della Pakachele Community School e dei suoi alunni, degli insegnanti, della direttrice della scuola, Angela Malik, della didattica della matematica e, per assurdo, inizio col raccontarvi di questa devastante tempesta che si è abbattuta su tutti noi, con l’aggressione di questo maledetto e mortale virus.
La pandemia da COVID-19 ha cominciato e continua nella sua carovana di morte sempre più violenta a devastare le nostre famiglie, i nostri amici e le comunità del mondo intero. Gli slogan diffusi per creare la consapevolezza di restare in casa e limitare il contagio che le televisioni e i social trasmettono quotidianamente, cercano di associare questa consapevolezza con un po’ di ottimismo che serve a combattere la depressione che può nascere per tante limitazioni delle nostre libertà individuali. Quel “ce la faremo” e anche quel “andrà tutto bene”, esprimono il bisogno diffuso di solidarietà e la speranza di trovare, in tempi brevi, medicine efficaci per la cura dei contagiati e un vaccino utile per la prevenzione. Speriamo in tempi assolutamente brevi. Quegli slogan sono una speranza e una possibilità buona per il futuro.
Torneremo ad abbracciarci e a stringerci forte.
Il rientro frettoloso e la chiusura delle scuole
Con lo scoppio della crisi sanitaria legata al Coronavirus, Comundo ha creato una Task Force con l’obiettivo di mantenere il contatto con tutti i dipendenti in Svizzera e all’estero valutando quotidianamente la situazione di rischio. La maggioranza dei cooperanti è rimasta sul posto, alcuni hanno deciso di rientrare temporaneamente dal loro interscambio, altri lo hanno finito con un po’ di anticipo. Io sono tra questi e così, il 20 marzo sono atterrata all’aeroporto di Zurigo.
Intanto in Zambia una misura drastica presa immediatamente dal Governo, dopo l’annuncio della presenza dei primi casi positivi a Lusaka, è stata la chiusura immediata di tutte le scuole di ogni ordine il 20 marzo. E quindi anche alla Pakachele Community School sono state sospese le lezioni in tutte le classi.
Vi scrivo quindi dalla mia trincea luganese e dalla mia clausura forzata, con il frigo mezzo vuoto, poiché questa battaglia alla pandemia si affida sempre di più a raccomandazioni, regole, ingiunzioni, veti ed interdizioni. Oramai diamo per scontato che tutto il mondo sta combattendo contro il tempo e contro la malignità di questo virus che sembra serpeggiare, indisturbato come se avesse trovato in ogni luogo un suo habitat naturale e ideale.
Un delicato, fragile, ma perfetto equilibrio
L’organizzazione partner con cui ho lavorato, la Pakachele Community School, è una realtà scolastica dove tutti gli attori implicati, dai docenti agli allievi, sino alla Direttrice scolastica, interagiscono in una sorta di delicato, fragile, ma perfetto equilibrio.
Dopo quasi 4 mesi di osservazione su come era espressa la didattica, ho voluto coinvolgermi, quasi in punta di piedi, e interagire per portare anche la mia voce, la mia presenza, i miei materiali e introdurre un po’ di tecnologia nelle diverse classi. Ho acquistato una performante macchina fotocopiatrice e stampante che ho installato nella mia abitazione e non a scuola, perché con le puntuali piogge scendevano dei piccoli rigagnoli dai tetti all’interno del mio ufficio, costringendomi a mettere tutto il supporto cartaceo, materiale scolastico e libri in buste di plastica per proteggerli dall’acqua piovana.
Quotidianamente, concordando con gli insegnanti gli obiettivi della lezione, ho potuto presenziare nelle classi, dal grado 1 al grado 9, per un totale di circa 300 allievi, comprese due classi di scuola speciale con 10 ragazzi sordomuti e 5 ragazzi con disabilità mentali.
L’aspetto più difficile non è stato quello di gestire le classi di quasi 40 allievi alla Pakachele, ma la preparazione prima dell’inizio di ogni lezione. Perché la scelta e l’accurata preparazione del materiale sono fondamentali, affinché si favorisca le condizioni dell’apprendimento del gruppo classe e dei singoli allievi.
Nessun materiale scolastico
Vi ricordo che alla Pakachele non ci sono libri di testo per ogni singolo allievo. Solo l’insegnante ha un suo libro che, capitolo dopo capitolo, riproduce sulla lavagna. Mettendo a disposizione un materiale specifico, invece, gli allievi possono apprendere, da soli e/o con i compagni di classe. Ho preparato così montagne di materiale, utilizzando la mia fotocopiatrice ed economizzando sulla carta per realizzare una miriade di foglietti colmi di calcoli matematici da eseguire.
In seguito, per essere coerente, nel retro del foglio aggiungevo un gioco matematico. Gioco che poteva essere un esercizio grafico che gli allievi completavano unendo i punti numerici uno a uno, o attraverso il calcolo o l’esercizio delle tabelline, per poi veder apparire un’immagine da colorare. Ma poiché la scuola non ha in dotazione materiale didattico per il disegno, due care amiche dal Ticino che avevano letto il mio primo bollettino (sulla scarsità del materiale scolastico alla Pakachele) mi hanno regalato delle matite colorate. Le ho messe in due buste ed entrando, classe per classe, distribuivo ai ragazzi le matite colorate, verso la fine della lezione. Davo a ciascun allievo una matita affinché colorasse la figura apparsa, dopo il collegamento di una serie di numeri collegati da un punto. Questo modo di procedere con le matite colorate, che poi mi venivano restituite per ripetere l’esercizio nelle altre classi, gratificava molto i ragazzi non abituati ad utilizzarle.
In realtà, questo gradito esercizio di colorazione della figura apparsa oltre all’aspetto ludico e divertente, introduce nell’allievo un altro elemento didattico perché lo abitua a rispettare contorni e contenuti del soggetto rappresentato.
L’inizio di approccio partecipativo
Con la mia presenza in classe, oltre al confronto con i docenti per riflettere sulla loro metodologia, ho cercato di mostrare come si poteva rafforzare l’insegnamento seguendo semplicemente l’apprendimento e lo svolgimento del compito assegnato ai ragazzi, direttamente fra i banchi. Il confronto con gli allievi diventa così costante e gradito, le domande ammesse e il supporto utile a superare errori di comprensione e difficoltà soggettive di svolgimento.
Complessivamente questo approccio, pur gradualmente, è stato accettato dall’insieme del corpo docente che ora cerca di avere un rapporto più diretto e pedagogico con la classe.
Continua la collaborazione con Comundo
Poiché gli allievi delle prime classi elementari quando arrivano a scuola non conoscono la lingua inglese, il governo zambiano ha deciso che per i primi 3 anni d’insegnamento la scuola utilizza la lingua locale. A partire dal quarto anno l’insegnamento dovrebbe essere in lingua inglese per tutti. Ma tale diverso approccio linguistico si scontra con le difficoltà degli allievi e pure dei docenti che conoscono ed utilizzano un inglese molto precario, alternato alla lingua locale.
Al mio arrivo ho introdotto un uso costante dell’inglese per ogni livello educativo. In tal modo anche ai primi livelli di classe, l’abitudine all’inglese è diventata una costante con cui dovevano misurarsi ed esprimersi. Tale mutamento, inizialmente difficoltoso, ha prodotto però il superamento rigido della barriera preesistente al quarto anno, in cui l’inglese doveva divenire obbligatorio come lingua d’insegnamento.
La direttrice della scuola ha condiviso questo nuovo orientamento linguistico. Al punto di richiedere a Comundo una prosecuzione del progetto con un/a docente di lingua inglese per formare gli insegnanti della Pakachele ad un utilizzo costante e diffuso della lingua ufficiale.
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Di Luisa Ottaviani | 27 aprile 2020 | Zambia
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